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Mettersi al posto dell’altro, quante volte Carla me lo dice, ce lo dice, eppure, nonostante io l’abbia sentito non una, due, o tre volte, ma bensì migliaia di volte, faccio una fatica immensa a metterlo in pratica, a rinunciare alla mia prepotente aspettativa che l’altro ragioni come me, capisca me. Sono stufa con me stessa di ricadere spessissimo in questo diabolico tranello che è tutto dentro di me, ben radicato. Lo so, so tutto con la testa e poi, in pratica, non lo supero e mi accorgo che ci ricasco frequentemente, non perdo occasioni per ricascarci, creandomi ogni volta una sofferenza che io stessa mi creo, mi creo il tranello, mi creo l’aspettativa, mi creo la delusione, mi creo la sofferenza e la ribellione e poi ripeto tutto questo. Sono proprio una testona, ripetente dello stesso errore che, per giunta, come risultato, mi fa solo stare male, ripetendo ed aggiungendo sofferenza a sofferenza tutta inutile. Con la testa lo so, so l’inutilità di questo pensiero e della sua ripetizione, eppure ci ricasco. So che è una prepotenza, una fregatura, tutto con me stessa, dentro me stessa. Lo so con la testa, ma faccio una grande fatica a non ricaderci. È come cercare di scavalcare ogni volta uno scoglio in mezzo al mare, scivoloso, coperto di alghe, cercare di arrampicarmi e subito riscivolare indietro, facendomi per giunta molto male, invece di nuotarci tranquillamente intorno. Lo so con la testa, ma poi, con testardaggine, è come voler a tutti i costi riprovare e riprovare a scavalcare quello scoglio scivoloso e pericoloso, perché lui, lo scoglio, continuerà a stare lì, al suo posto, con le sue alghe appiccicate e scivo-lose ed io, provando e riprovando a scavalcarlo posso solo farmi del male, graffiandomi le mani e le ginocchia e ricadendo malamente indietro nell’acqua. Perdendo così tempo, energie, tutto inutilmente, quando basterebbero solo due bracciate per nuotarci intorno ed andare avanti.

C.G.

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